Le Stelle Guardiane.

Roberta Zanlucchi

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IL RACCONTO.

“Il racconto di Vittorio; un bambino vittima come altri di un sistema che lo ha privato dei suoi diritti fondamentali, quali la libertà, il diritto all'istruzione.

Ci ricorda allora come oggi il potere dell'empatia e della compassione nei confronti di chi è costretto a vivere esperienze di estrema difficoltà.”

Vittorio partito con i genitori dal bellunese negli anni ‘60, si troverà a vivere l’esperienza di essere un clandestino in Svizzera.

Uno tra i tanti bambini, più di quindicimila, chiamati “i bambini negli armadi”.

LEGGI L’ESTRATTO.

Vittorio Baden 1961.

Vittorio osservava la luce che entrando, disegnava un quadrato luminoso sulle tavole del pavimento. L’attendeva, verso le tre del pomeriggio, spuntare dall’angolo della casa di fronte quando la luce del sole riusciva a superare il tetto e si infilava nella sua finestra ad illuminare la stanza. Lentamente diveniva un rettangolo allungato, poi un a lama di luce che saliva piegandosi fino al suo letto e per finire una linea che attraversava il cuscino. In quel momento sapeva che la giornata stava per finire, a breve sarebbe arrivata la sera; la luce definiva, testimone muta le giornate che passavano. Era l’inizio e la fine della giornata, le ore trascorse a mangiarsi le unghie fino a farle sanguinare. Quel raggio luminoso a volte entrava forte e diretto nelle belle giornate permettendogli di giocare qualche momento con le ombre sul muro e immaginare, lupi che divoravano pecore, rami e alberi che si muovevano al vento. Gli piacevano i raggi, quelli che producevano una luce dura dentro cui giocava la polvere, minuscoli granelli a rincorrersi, in un muoversi misterioso. A volte, nelle giornate coperte arrivava tenue, lattiginosa e densa ma anche quello bastava a fargli compagnia. Era ormai sera quando sarebbe potuto scendere dal letto, appoggiare i piedi sul pavimento e sbirciare dalla finestra del cucinino i passanti sulla via, le mamme con i bambini per mano, i camion e le macchine. Sua madre avrebbe preparato qualcosa da mangiare e suo padre avrebbe acceso la stufa che faceva quel bel tepore fino a che non era ora di andare a dormire. Alle sette del mattino sentiva i ragazzi che di sotto andavano a scuola, il loro vociare e le risate, le scarpe sul marciapiede. Poi tutto si spegneva e rimaneva il rumore delle poche macchine sulla via. Aveva spesso le gambe come addormentate, bianche, la pelle quasi trasparente per il poco moto e appena poteva faceva qualche piegamento e calciava come se avesse un pallone davanti a sé. Aveva compiuto sette anni. Li aveva compiuti appena arrivati in Svizzera, con una torta fatta di uova e uvetta dolce, come una grande frittella che aveva mangiato avidamente. - È tutta tua – aveva detto sua madre. Poi gli avevano regalato un maglioncino grigio con i bottoni di metallo, nuovo senza buchi fatto da lei. La lana era dura e gli pizzicava il collo, ma ci aveva poi fatto l’abitudine. Dalla finestra della cucina si scorgeva un rettangolo di erba chiuso tra le case basse ma ne poteva scorgere solo una parte. Due pezzi di legno appoggiati a terra a distanza di tre metri, fungevano da porta. Un bambino stazionava davanti e si gettava a destra e sinistra parando un pallone mezzo sgonfio. Ogni tanto li vedeva correre con le braccia alzate, le ginocchia arrossate e sbucciate, mani in alto che si davano segnali di vittoria a pugni chiusi; a volte il bambino con la maglia blu si rifiutava di giocare e veniva preso a spintoni e strattonato per la maglietta, finché non faceva si, con la testa e accettava i dettami del gruppo. - Vittorio... - Sua madre lo chiamava sottovoce per sedersi a cena sulla panca a mangiare, ma lui lasciava gli occhi incollati alla finestra finché il giorno glielo permetteva. Lei, dunque, si alzava, lo prendeva per le spalle girandolo su sé stesso. Allora si sedeva arruffato come un gatto, prendendo dal cestino mezzo panino. Voleva sentire la mollica di pane che si attaccava al palato e giocando lasciarla la, senza che i genitori se ne accorgessero. Si scioglieva a poco a poco lasciandogli il profumo di pane che gli avvolgeva la bocca. Non voleva che tutto finisse troppo presto, si imponeva capricci che non aveva mai fatto, non voleva che sua madre sparecchiasse e che i suoi si ritirassero già nel letto di fronte al suo, stanchi dal lavoro. La tirava lunga, mangiando a volte troppo lentamente, raccogliendo poca minestra alla volta, tanto per perdere tempo. “Forza, che si fredda” gli diceva sua madre mentre sparecchiava il resto della tavola. All’ora di cena, puntualmente Nicola accendeva la radio che prendeva il sopravvento sulle parole e Vittorio sapeva bene quando poteva o non poteva parlare. Suo padre era assorto nell’ascolto e sua madre allungava le gambe da sotto al tavolo con i piedi infilati nelle vecchie pantofole di velluto. - Papa? - Provava ogni tanto - Vittorio, non adesso, tuo padre vuole sentire le notizie. - Lèna allungava la mano, carezzandogli la testa con i capelli castani. - Te se patì - Sei patito, vuoi un quadretto di zucchero? - Vittorio allora andava verso l’armadietto basso e tirando fuori la scatola di alluminio la porgeva a sua madre. La caramella era piccola e quadrata, Vittorio se la cacciava sotto la lingua e poi gli faceva fare il giro dalle guance finché diveniva piccola piccola. Il profumo di cannella gli rimaneva tra le labbra finché Lèna non gli strofinava la bocca per poi infilarlo dentro il pigiama rigido come uno stecco.

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